Non c’è certo bisogno di ricordare quanto internet ci abbia cambiato la vita. Questo è vero soprattutto nell’ultimo decennio, quando i social network ci hanno fatti sentire tutti un po’ più liberi: liberi di scovare contenuti interessanti invece di limitarci a fare zapping davanti alla tv, liberi di far sentire la nostra voce a una grande azienda o un personaggio famoso, liberi di mettere nero su bianco le nostre opinioni e farle conoscere (potenzialmente) al mondo.

say somthing giphy Fin qui, abbiamo dipinto un quadro che appare idilliaco. Forse un po’ troppo. Per tornare alla realtà, ci basta aprire Facebook e andare alla ricerca di una qualsiasi notizia di cronaca: di sicuro non dovremo attendere molto per imbatterci in commenti polemici e rancorosi. Se poi entrano in gioco le cosiddette minoranze, apriti cielo! Non si può nemmeno più parlare di polemica, ma di cattiveria pura e semplice.

Ecco, abbiamo sperimentato in prima persona quello che tecnicamente si chiama hate speech, l’odio che corre rapido soprattutto in Rete. Non è semplice definirlo, tant’è che i sociologi si stanno ancora interrogando sulle sue cause e soprattutto sulle sue conseguenze nel cosiddetto “mondo reale”. Noi non siamo sociologi e non abbiamo la pretesa di dare risposte, ma siamo convinti del fatto che valga la pena di rifletterci un po’ di più. Tanto più se non siamo solo utenti dei social network, ma li abbiamo trasformati nel nostro lavoro.

Cosa significa hate speech

Per inquadrare meglio il tema, cominciamo dalla definizione dell’enciclopedia Treccani:

hate speech loc. s.le m. Nell’àmbito dei nuovi media e di Internet, espressione di odio e incitamento all’odio di tipo razzista, tramite discorsi, slogan e insulti violenti, rivolti contro individui, specialmente se noti o famosi, o intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, persone di colore, omosessuali, credenti di altre religioni, disabili, ecc.).

L’hate speech (letteralmente “discorso d’odio”) è sempre esistito, ma con l’avvento dei social media ha raggiunto dimensioni che non possiamo più ignorare. In ambito accademico, uno dei più abili a teorizzare questo fenomeno è stato Alexander Brown, con un paper scientifico di cui troviamo una buona sintesi in italiano su Medium. Se volessimo tracciare un confine tra ciò che si può dire hate speech e ciò che non lo è, sostiene lo studioso, non potremmo fare riferimento soltanto sulla giurisprudenza, perché denunce e processi sono soltanto la punta dell’iceberg.

Più in generale, ci ricorda Inside Marketing, sotto il cappello di hate speech rientrano “tutti quei comportamenti – verbali soprattutto – violenti, minatori, poco rispettosi dell’altro”, che “creano un clima di ostilità e un ambiente poco favorevole alle minoranze”. Di solito si parte dalle minacce verbali, ma da lì si fa presto a passare a quelle fisiche.

Perché internet è terreno fertile per l’odio?

Non nascondiamoci dietro a un dito: tutti prima o poi abbiamo assistito di persona a qualcosa del genere. Anche perché le categorie che possono essere additate come minoranze sono innumerevoli: gli stranieri, ma più in generale tutti coloro che hanno un colore della pelle diverso (e magari sono italianissimi!); le persone omosessuali, bisessuali e transgender (LGBT); chi professa un’altra religione; o addirittura le donne, che in termini numerici sono tutt’altro che minoranza! Nella frenesia del dibattito social, chiunque esprima un pensiero diverso può aspettarsi di essere ricoperto di insulti da un momento all’altro.

Ma se la stessa discussione avvenisse al bar o alla macchinetta del caffè in ufficio, le reazioni sarebbero così violente?

Probabilmente no, ed è qui che si spiega perché la violenza “funzioni” così tanto in Rete. Troppe persone considerano lo schermo come un’armatura che protegge la loro identità e le fa sentire legittimate a sfogare tutta la loro frustrazione. Passa in secondo piano il fatto che, dall’altro lato, ci siano altri esseri umani, che hanno dei diritti e delle emozioni e che potrebbero sentirsi umiliati, o addirittura in pericolo.

Potrebbe sembrare un’esagerazione, ma la (triste) realtà dei fatti è che ormai si pubblica quasi con leggerezza anche ciò che fino a poco tempo fa era considerato indicibile, comprese le minacce di morte e di violenza. Questo accade anche perché i social media favoriscono le cosiddette “eco chamber”, letteralmente “camere dell’eco” in cui ciascuno si sente protetto e compreso perché trova soltanto persone che la pensano come lui. In mancanza di un confronto con l’esterno, le opinioni tendono a polarizzarsi e si arriva all’estremismo senza quasi rendersene conto.

Il manifesto di Parole O_Stili

Per fortuna c’è anche chi cerca di mettere un argine alla deriva, ricordandoci che internet è innanzitutto un luogo di condivisione, scambio e crescita. Un bell’esempio collettivo, tutto italiano, è Parole O_Stili, che si presenta come “un progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole”.

La sua intuizione più azzeccata è stata quella di pubblicare Il Manifesto della comunicazione non ostile.

Manifesto della comunicazione non ostile

Attorno a questi principi sono nati tanti eventi nelle scuole e nelle aziende, tre libri, diverse comparsate televisive e alcune declinazioni tematiche (ora c’è un manifesto per la scienza, per la politica, per lo sport…). A noi piace pensare che sia un segnale. Ci piace credere che la maggioranza si sia già stufata di tutta questa negatività e non veda l’ora di vivere con più serenità il confronto con gli altri, anche quando passa attraverso uno smartphone.

E non è un’utopia, anzi: sta a noi andare nella direzione giusta. 

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