Assunto con un contratto da dipendente, con un’età compresa tra i 30 e i 45 anni, all’incirca a metà carriera. È il profilo del lavoratore statunitense che, con ogni probabilità, sta pensando di licenziarsi. O magari l’ha già fatto. Lo sostiene Ian Cook su Harvard Business Review, dopo aver passato in rassegna i dati su oltre 9 milioni di persone che hanno lasciato le 4mila aziende per cui lavoravano. Un fenomeno che è stato ribattezzato, non a caso, great resignation (grandi dimissioni). Ed è uno dei tanti sconvolgimenti che caratterizzano il lavoro post-pandemia.
Qualche numero per capire le grandi dimissioni
Letti nel loro insieme, i numeri sono impressionanti: si parla di 38 milioni di statunitensi che si sono licenziati nel corso del 2021. Considerato che – come ben sappiamo – la pandemia è un fenomeno globale, non c’è troppo da stupirsi nello scoprire che le grandi dimissioni sono arrivate anche in Italia, seppure a scoppio ritardato. Lavoce.info ha aggregato i dati forniti dal ministero del Lavoro ed è arrivata a dire che, su tutte le posizioni lavorative che si sono chiuse nel secondo trimestre del 2021, in un caso su cinque è stato per volontà del dipendente. Il quit rate, cioè il numero di dimissioni sul totale del numero di occupati in quel periodo, è pari al 2,12%. Un record. I numeri sono un po’ datati perché ci vuole del tempo per elaborarli, ma la curva vira verso l’alto in modo palese.
Perché le persone hanno lasciato il lavoro
Secondo Cook, ci sono validi motivi per cui i giovanissimi tra i 20 e i 25 restano ancorati al proprio impiego, così come gli over 60 più vicini alla pensione, mentre l’incidenza delle dimissioni cresce del 20% nella fascia 30-45 anni. Innanzitutto, la definitiva consacrazione del lavoro da remoto ha tanti vantaggi per chi era costretto a una vita da pendolare, ma anche un enorme svantaggio per l’azienda: diventa molto più complicato prendere in squadra una risorsa junior e formarla adeguatamente. Le figure che hanno già maturato un certo bagaglio di esperienza, per contro, diventano più competitive; poco importa se chiedono qualcosa in più rispetto a uno stipendio entry level.
Molte di queste persone inoltre meditavano da tempo di cambiare impiego, ma erano state frenate dallo scoppio dell’emergenza sanitaria, con il suo carico di sbigottimento. Ora che l’hanno metabolizzata, finalmente si sentono pronte. Al contrario, per altre persone la miccia del cambiamento è stata proprio la pandemia.
Pro e contro del lavoro post-pandemia
Su ciascuno il coronavirus ha avuto un impatto diverso, ma alcuni trend legati al lavoro post-pandemia sono stati trasversali. Il più importante l’abbiamo già citato: è lo smart working. Inizialmente è stato celebrato come una rivoluzione e, per molti, lo è stato: pendolari, genitori di figli piccoli, emigrati pentiti che si sono ri-trasferiti nella regione d’origine. Tant’è che, quando alcune aziende hanno imposto di tornare in ufficio, c’è anche chi ha risposto con un secco “no”. Anche a costo di cercarsi un’altra posizione, accettando un inquadramento contrattuale più modesto.
Per molti altri, però, il lavoro da casa ha mostrato anche i suoi punti deboli. “Spesso ha reso più sfumato il confine tra lavoro e vita privata”, ha dichiarato il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus. A ciò si aggiunge il fatto che “molte aziende sono state costrette a ridimensionare o terminare alcune attività per risparmiare, e le persone assunte hanno finito per allungare la giornata lavorativa”. Se l’Oms si occupa di questi temi, è perché hanno anche ripercussioni sulla salute. Tangibili e documentate.
Potrebbero essere stati proprio i carichi di lavoro eccessivi, magari sfociati in episodi di burnout (cioè vero e proprio esaurimento fisico ed emotivo), a convincere tante persone a voltare pagina. Non è un caso, afferma Ian Cook, se negli Usa le dimissioni sono aumentate del 3,6% nella sanità e del 4,5% nel tech. Entrambi settori che da un giorno all’altro sono stati costretti a mettere il turbo.
E se la soluzione fosse la settimana corta?
Se è così, perché non lavoriamo tutti un giorno in meno alla settimana? Fino a qualche anno fa, l’idea sarebbe stata accolta con una sonora risata. Oggi in Islanda la settimana corta è una realtà per l’85% dei lavoratori: il salario è sempre lo stesso, ma i primi studi dimostrano incoraggianti passi avanti in termini di benessere e (sorpresa!) anche di produttività. Tant’è che il governo belga ha avanzato una proposta simile, prospettando però di tenere inalterate le canoniche 38-40 ore settimanali e spalmarle su quattro giorni anziché su cinque. L’idea di lavorare per quasi dieci ore al giorno, tuttavia, ha destato qualche comprensibile malumore.
Che dire invece dell’Italia? Secondo un sondaggio condotto da ADP, fornitore di servizi per la gestione delle risorse umane, il 42,2% dei nostri connazionali resta affezionato alla canonica settimana lunedì-venerdì. Tra tutti coloro che si sentono incuriositi dalla settimana corta, invece, il 43,8% è disposto a seguire il modello belga, allungando l’orario pur di mantenere lo stesso stipendio. Il 14%, invece, si dice pronto ad alleggerire la busta paga pur di lavorare otto ore al giorno, quattro giorni su sette. Per ora, comunque, stiamo parlando soltanto di ipotesi sul lavoro post-pandemia. Chissà se le aziende e la politica si metteranno all’ascolto.
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